Parliamo con Majd Patou Fathallah
una delle artiste che ha partecipato a DonnaScultura 2014
- Prima di iniziare a lavorare come scultrice, Lei aveva carriere in ambiti completamente differenti: ha lavorato in radio, in televisione, è stata produttrice e addirittura Dee-Jay… Cosa significa la scultura per Lei, e cosa L’ha convinta a dedicare interamente la sua vita a scolpire?
Ho iniziato a scolpire molto anni fa, come hobby, in un periodo in cui lavoravo come produttrice di spot pubblicitari. Ricordo chiaramente le sensazioni che provavo quando mi trovavo di fronte ad un blocco di creta. Con il tempo mi dedicai sempre di più a essa, divenne una parte più rilevante della mia vita, tanto che a un certo punto decisi di lasciare quella che era la mia vita precedente per dedicarmi alla scultura: era diventata quella la mia vita, era quella la cosa più importante per me, ciò che volevo realmente fare. Tutte le altre sono state esperienze interessanti, ma quella era una vita differente. Indubbiamente, mi dà più soddisfazione scolpire qualcosa che mettere insieme il budget per fare un film.
- Come ha vissuto un simile cambiamento? E’ stata una rivoluzione nella sua vita?
Rivoluzione? Oh no, è stato molto naturale. Credo fosse destino, e l’ho visto come una continuazione, una parte di un percorso in cui io stavo andando sempre più avanti. In quel momento della mia vita era quello che avevo deciso di fare, ero tranquilla.
- Lei ha viaggiato moltissimo fin dall’infanzia. Quali sono state le tappe più importanti?
Quando si è bambini spostarsi di continuo non è in realtà così divertente, ma certo lascia delle forti tracce. Nel mio caso, mi ha lasciato un senso di internazionalità: dovunque viva, riesco a sentirmi un po’ a casa. Ho passato i miei primi anni tra Marsiglia, Praga, Belgrado… non ho delle radici profonde come magari qualcuno che ha passato una esistenza intera in un solo luogo. Ma il viaggio era una condizione ordinaria della mia vita: le influenze più importanti le ho avute successivamente, dall’arte, dalla musica, dalla filosofia. E il fatto storico che ha lasciato il segno più grande è stata la guerra civile in Libano, il paese di cui è originaria la mia famiglia. Ma il passo davvero decisivo, per la mia vita e per la mia arte, è stato riuscire ad accorgermi della connessione che avvolge il mondo intero, tutte le cose e tutte le persone, a osservarla e a riflettere su di essa.
- Nelle Sue opere Lei esprime una visione della realtà odierna rivolta esclusivamente a se stessa e poco attenta alla verità della natura. La raffigurazione di Narciso è una trasposizione molto efficace di questa concezione.
La mia interpretazione di Narciso non è solo una riflessione sul mito del personaggio, ma anche qualcosa che è legato a quello che sta succedendo nel mondo, all’attenzione che le persone rivolgono a se stesse. Non penso che il narcisismo sia una condizione esclusiva di tutto il mondo, ma solo un singolo aspetto di esso. Un aspetto che fa sì che la gente soffra. E’ questo che cerco di interpretare in quella scultura.
- Abbiamo visto due versioni del suo Narciso. Come saranno le altre?
Progetto di realizzare sette versioni di Narciso, ed esatto, ne ho realizzate finora due. La prima ha una patina particolare che dà un effetto bronzeo, molto classico. La seconda versione è molto più contemporanea: il plexiglas e il colore fosforescente connettono il mito antico con quello moderno, che ancora esiste. Ce ne saranno altre cinque. Forse rosso. Forse di nuovo classico. Forse in bronzo, bianco. Ma tutte volte a trasmettere il senso di importanza che l’essere umano rivolge esclusivamente a se stesso. Il mito di Narciso è perfetto per esprimere questo simbolismo. Non so ancora dove mi porterà la ricerca per le versioni successive. Ho sì un’idea, ma ancora niente di definito. Chissà, magari ci sarà un Narciso di vetro…
- Che ruolo ha l’artista in un mondo di individui avvolti su di sé e affetti dal narcisismo come quello che Lei descrive? Può in qualche modo contribuire a rendere migliore il mondo in cui vive?
Non tanto di migliorarlo o peggiorarlo. Piuttosto può far sì che le persone riflettano. Perché quando qualcuno osserva un’opera d’arte e ne viene colpito emotivamente, in negativo o in positivo, è di per sé qualcosa di molto utile. Ed è la cosa più grande che l’arte possa fare. La mia arte è basata principalmente sulle emozioni, su quello che può essere suscitato nell’osservatore. Per stimolare una condivisione di emozioni, sì, ma soprattutto per raggiungere una maggiore chiarezza emotiva. Sia che questa possa poi essere interpretata storicamente, come segno di un periodo o di una cultura, oppure come esempio di un pensiero simbolico e universale.
Donna scultura 2014 – Chiesa di Sant’ Agostino – Pietrasanta
- Le Sue opere sono realizzate con grande attenzione per ogni dettaglio. Ci parli del Suo processo creativo. Le Sue idee hanno sempre bisogno di una elaborazione complessa o sono anche frutto di espressioni immediate?
Ci sono modalità differenti. A volte è molto laborioso, come aspettare un bambino e farlo nascere, altre volte invece è molto spontaneo. Ma nel mio caso è sempre qualcosa che passa attraverso il cuore, qualcosa che devo sentire in maniera molto forte non solo nella mia testa, dove ogni cosa viene giudicata analiticamente, ma qualcosa che devo percepire nel cuore. Poi parte tutto, cominciano a accadere cose, come coincidenze, quando ho un’idea in testa e sono concentrata su di essa, comincio a notare relazioni ovunque, che prima non avevo notato. E poi con la mia creatività creo le forme con cui voglio esprimermi attraverso una materia tridimensionale.
- Poco fa Lei ha accennato all’importanza di osservare delle connessioni. Cosa significa?
Esiste un legame tra ogni cosa. Bisogna arrivare a percepirlo. Un vecchio sufi mi disse quando sei in grado di vedere, vedere davvero, non hai più bisogno della fede, perché inizi a divenire ciò che la fede prova a insegnarti. Quando cominci a vedere tutte le connessioni, con la natura, dentro te stesso, la vita cambia. Perché è la tua stessa percezione che cambia. Ed è un fatto contagioso. Il mio lavoro artistico è sempre legato alla condizione umana, all’osservazione dell’uomo inserito nella natura. E ha sempre a che fare con sentimenti, dolore, amore, desiderio, su come questi si riflettono sulle persone e sulle relazioni che esse hanno tra di loro e con tutto il mondo che le circonda. Sono molto interessata alla psicologia, lo studio del lato nascosto dell’uomo. Credo che quando certi punti oscuri saranno sistemati in ogni uomo, ogni cosa troverà una soluzione. Sta a ogni singola persona sistemare se stessa, arrivare ad avere la percezione totale della natura. Conquistarla è come indossare degli occhiali che danno una visione completa.
- C’è stato un momento preciso in cui si è resa conto di possedere questa capacità di visione?
Ci sono stati molti momenti diversi. E’ un processo che richiede molto tempo, ma si comincia proprio percependo dei singoli istanti di chiarezza. Si tratta di un tipo di chiarezza così grande e assoluta che non è più possibile dimenticare e abbandonare: possono poi esserci momenti negativi, certo, ma non saranno più come prima: niente sarà così terribilmente drammatico… tutto è più quieto, è molto bello. E’ il punto di vista di molte religioni, la direzione in cui si pensa procederà l’evoluzione dell’umanità.
- Aver conosciuto tanti paesi e culture diversi deve essere stato fondamentale per maturare questo tipo di apertura mentale. E deve essere stato importante anche per la Sua sensibilità artistica…
Più ci si espone, in generale, nella vita, meglio è per l’arte, perché si scoprono infinite cose su cui riflettere ed esprimersi. Aver sperimentato tante culture diverse e sopratutto aver conosciuto diverse lingue, alcune che so ancora, altre che ho dimenticato, mi ha certo aiutato pure come artista. Pensate che la prima lingua che ho imparato a leggere, il ceco, è una lingua che oggi non conosco più; così come la prima lingua con cui ho parlato con i miei genitori. Volevano mandarmi a una scuola francese, quindi cominciarono a parlare tra loro in arabo e con me in francese. Ma poi non trovammo una scuola francese e andai a una scuola americana, e da lì la mia lingua principale è stato l’inglese. Ma per i primi sei anni ho parlato jugoslavo, che pure ora ho dimenticato. Si può anche dire che ho un po’ di confusione culturale, in testa…
- Esistono luoghi particolari in cui riesce a sentirsi più ispirata?
Non c’è un posto che mi ispira particolarmente per creare, piuttosto esistono luoghi a cui riesco a sentirmi più legata, più in contatto. Quale potrei chiamare casa non saprei. Un luogo particolare per me è l’India. Ho vissuto a New Delhi per due anni e mezzo, molto tempo fa, e mi ci sono sentita davvero in contatto, e felice. Può essere amata o odiata, ma è in ogni caso una città che non può lasciare indifferenti.
- E la Toscana?
Vivo in Toscana da quattro anni, in un piccolo paese sopra Camaiore, Nocchi, è bellissimo. Mi sento legata anche a Pietrasanta, certo, forse perché con il suo paesaggio mi ricorda un po’ il Libano. Ora tornerò a Londra, ma spero di poter ritornare. Mi trovo molto bene, anche per lavorare: è così tranquillo. Qui riesco ad apprezzare ogni momento, basta guardarmi attorno per pensare “che bello qui!”, e mi sento davvero fortunata. Ho la possibilità di fermarmi, osservare e pensare alla bellezza che mi sta attorno, non imponendomi che sia tale ma davvero avvertendola, sentendola realmente.